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Perché agli italiani piace parlare di cibo

Complice l'Expo, siamo subissati dal tema cibo, proposto in tutte le salse. Non che prima il filone fosse poco sfruttato: il discorso intorno al food è presente sui media in quantità e concentrazione da overdose. E dal 2008 al 2014 la produzione di libri di cucina è aumentata del 70 per cento. Ma perché questa ossessione? A dare una risposta prova Elena Kostioukovitch con il suo saggio Perché agli italiani piace parlare del cibo, appena tornato sugli scaffali grazie alla riedizione rivista e corretta da parte di Odoya e Teckel Books
di Michele R. Serra

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Si apre l'Expo milanese, e le librerie vengono inondate da volumi che raccontano il cibo. Non che prima il filone fosse poco sfruttato, beninteso: anche a non voler credere ai dati statistici che girano in rete e che convintamente affermano che i libri di cucina rappresentino il 2 per cento del totale della carta stampata, bisogna ammettere che il discorso intorno al cibo è presente sui media in quantità e concentrazione da overdose. Eppure rimane stranamente veloce, superficiale, spesso inutile. Elena Kostioukovitch ha avuto la rara capacità di anticipare il trend e allo stesso tempo di superarlo, scrivendo un saggio corposo, divertente, concreto, estremamente colto e profondo. Infatti è dal 2008 al 2014 che la produzione di libri di cucina è aumentata del 70 per cento, fino a sfondare ampiamente il tetto dei quattro milioni di copie stampate. Ma Elena Kostioukovitch aveva già pubblicato nel 2006 il suo Perché agli italiani piace parlare del cibo, appena tornato sugli scaffali grazie alla riedizione rivista e corretta da parte di Odoya e Teckel Books. Non si tratta di un libro "di cucina", intendiamoci: le ricette sono raccontate, e mai spiegate per filo e per segno. La Kostioukovitch (scrittrice e traduttrice italo-ucraina protagonista dello scambio culturale tra italofoni e russofoni con traduzioni da una parte di Sokolov e Akunin, dall'altra di Pasolini, Quasimodo, Eco) sembra interessata alla cultura e alle narrazioni che si muovono intorno alla tavola almeno quanto ai piatti che su di essa si posano.

Siamo lontani dallo small talk da pranzo in famiglia che ci ammorba sin dall'infanzia: "E queste, come sono fatte?"; "Mi ricordo quando lo zio Mario andava a pescare i ricci per la pasta"; "I veri fondi di carciofo si trovano solo a Venezia"... e così via. No, i discorsi sul cibo di Elena Kostioukovitch volano molto più in alto, senza però mai diventare snob, perché condotti (conditi?) con leggerezza. Anche quando si cita Gogol, Petrarca, perfino il Deuteronomio, quinto libro della Bibbia e della Torah. Oppure, più facilmente, visto l'argomento, il massimo poeta maccheronico Teofilo Folengo, capace non solo di adottare quello stile, amalgama di lingua "nostrana e forestiera", ma anche di descrivere nei suoi poemi gli dei dell'Olimpo intenti a cucinare (e indovinate cosa sta preparando il grande Giove, nel Baldus pubblicato alla fine del sedicesimo secolo? Proprio i maccheroni, ça va sans dire). Del resto, non è la nostra antica lingua stracolma di espressioni riconducibili al cibo? Se avete mai reso pan per focaccia a qualcuno, o avete messo troppa carne al fuoco durante una riunione di lavoro, sapete già di cosa si sta parlando.
Perché agli italiani piace parlare del ciboPerché agli italiani piace parlare del cibo è un viaggio attraverso l'Italia da nord a sud: ogni regione un capitolo, e molti racconti. Dei marinai liguri che, dopo mesi in mare a mangiar merluzzo, bramavano focacce e cibi di terra; dei calabresi scorbutici che continuano a coltivare e cucinare quelle melanzane che fino alla fine dell'Ottocento erano considerate responsabili di pazzia e disordini psichici (mentre oggi sappiamo che, al massimo, aiutano a combattere la cellulite); dei virtuosi intellettuali a cui era affidato il fondamentale compito di trinciare la carne destinata al banchetto della corte estense, nella Ferrara del Cinquecento. Perché parlare di cucina significa riscoprire una storia, un Paese che forse abbiamo in parte dimenticato. Un'Italia unita proprio dalla sua diversità. "Incontrare la cucina italiana, scrive Umberto Eco nell'introduzione, vuol dire scoprire la differenza abissale, non solo di linguaggio, ma di gusti, mentalità, estro, sense of humour, atteggiamenti di fronte al dolore e alla morte, loquacità o silenzio, che separano un veneto da un sardo". Oltre a questa mappa geografico-culturale del cibo, Elena Kostioukovitch costruisce un piccolo catalogo di argomenti trasversali, capaci di attraversare le succitate differenze regionali. Ad esempio, la fiducia (giustamente riposta) nella dieta mediterranea, il disprezzo per il junk food e la diffidenza verso gli ingredienti "di lusso", oppure la spietatezza nei confronti della pasta cotta anche un solo minuto di troppo. Un capitolo è dedicato, inevitabilmente, al rapporto tra cibo ed eros, e si chiude con un consiglio: per un appuntamento formale, scegliete un risotto; per l'amicizia, la pizza; e per l'amore, gli spaghetti. Ma questo lo sapevamo già, da Lilli e il Vagabondo.